Poesie
Un pomeriggio ti ho sognata.
Eravamo insieme sulla soglia di uno slargo che mette su uno strapiombo.
Al fondo della staccionata tre uomini discutevano allegramente.
Uno dei tre con un cappello a falde larghe ci fece cenno e salutò.
Vedi, quello è Cardarelli, ti dissi,
ma tu sembravi distratta e non rispondesti o così mi parve.
Queste poche immagini sono un intero sogno, il tuo volto, i tre uomini,
un saluto da un poeta, che colmano per un tratto il vuoto della tua inesistenza.
I versi di una poesia di Cardarelli che dicono: “dovevamo saperlo che l’amore brucia
La vita e fa volare il tempo”. Forse sono loro che mi hanno fatto sognare.
Vorrei essermi sbagliato, non essere io il sognatore, ma il sognato.
​
Ti guardo negli occhi e ci vedo l'universo.
Ma questo te l'ho già detto
in tutti gli sguardi persi,
negl'attimi che si sottraggono furtivi
al monotono ripetersi dei giorni.
l'ho detto nelle parole che ti restano dentro,
nei pensieri frettolosi che s'inceppano,
come la ruggine ferma il bilanciere
di un orologio che si è stancato
di contare il tempo.
Forse tra un anno o due non ci vedrò più niente,
e sarà peggio.
Il verde dei tuoi occhi sarà solo il ricordo del mare
e l'universo, la notte di San Lorenzo al buio senza una stella che cade.
Lasciati amare.
E ti bacerò tra i grattacieli di Manhattan
O sotto gli archi della torre di ferro tra i turisti
O sotto quella che non sta mai dritta.
Ti bacerò a Gibilterra dove Ulisse si perse
o a Istambul dove al mattino il mare s’imporpora d’oriente
o ancora d’inverno tra le scogliere bianche di Dover.
Lasciati amare disperatamene e ti bacerò in primavera a Firenze sul vecchio ponte
O nel freddo autunno di una Venezia spoglia dove le foglie non cadono
O d’estate in un campo di grano della nostra terra.
Lasciati amare
E ti bacerò nelle sabbie del deserto tra le dita rosate di Eos
O tra i fiordi dove la notte non si stanca
Ti bacerò lungo la district line in un vagone della metropolitana londinese
O nel tardo meriggio di fronte a Notre-Dame
Ti bacerò su un tram di Lisbona
O a Cuba sui resti di un sogno
Ti bacerò in un vicolo di Napoli
O nella cattedrale di Palermo
Ti bacerò lungo le rive del Nilo sotto le piramidi ancora in piedi.
Lasciati amare
E ti bacerò sull’Hudson
O a San Francisco sospesi sul Golden Bridge
Ti bacerò ancora nella baia di Rio
O tra le colonne del Partenone dove tutto è iniziato
O a Sorrento tra gli alberi dei limoni
Ti bacerò appena sveglia in un albergo di Nairobi
O stanca in una stanza di Berlino
Sotto il cielo della Liguria
O in una Praga bagnata dalla pioggia di Dicembre
Ti bacerò sul ponte Carlo di notte nascosti sotto l’ombra lunare delle sue statue
O a Roma nelle sue rovine.
Lasciati amare
E ti bacerò in piazza del campo a Siena
O sull’erba di Campovolo
o nell’azzurro mare della Grecia
o ancora sulle verdi montagne del Vermont
o sulle ramblas di Barcellona
nelle strade di Stoccolma o lungo i navigli di Milano
ti bacerò su una panchina di Bologna
o sul traghetto che ci porta in Sicilia
ti bacerò a Trani davanti alla sua cattedrale
o in una strada buia di Buenos aires
ti bacerò senza stancarmi nell’antica terra dei samurai
o sotto il cielo plumbeo di Pechino
ti bacerò a Mosca nella piazza rossa sulle lacrime di una rivoluzione
o in una corte ornata di Pietrogrado
In Santa Margherita dei Cerchi che contiene il mondo
ti bacerò in un caffè di Budapest
O sui treni di Tozeur dove i miraggi li vendono per poco.
Lasciati amare e ti bacerò nella grotta dell’angelo che sa fare i miracoli
O ancora sospesi su un areoplano aggrappato al cielo
In San Luigi dei francesi nella penombra di un Caravaggio
o in Alexanderplaz dove il mondo si divise
Ti bacerò a est e a ovest a sud e a nord in ogni direzione
Ti bacerò nel passato e nel futuro
Perché tu ci sei sempre stata
Ma io non lo sapevo
C'è gente convinta
Che il paradosso di Zenone sia solo menzogna.
Certo, se s’inforcano gli occhiali della scienza questo è plausibile.
il tempo non può dividersi all’infinito e lo spazio avrà pure una fine.
La fisica però ci ha abituati agli sgambetti, e l’ultimo ci dice
Che il tempo può accorciarsi, lo spazio dilatarsi e chissà cos’altro.
La fisica ha ragione a dubitare. Che cos’è che conta per davvero:
il volo o il sogno che ci fa volare.
Lasciamo quindi libero Zenone di pensare i suoi paradossi senza sbagliare.
Il poeta afferma che persistenza è solo l’estinzione.
E se così fosse e nient’altro,
dove ce la mette l’assenza,
e tutte le possibili cose che restano un’ intenzione;
il tempo sprecato per cercare una presenza,
la luce che s’immagina dall’ombra che produce,
lo zero che esiste solo per far tornare i conti,
l’idea che non si realizza, una parola che non si traduce,
un viaggio mai fatto, una vista senza orizzonti
chiusa tra le canne fumose dei tetti
dove stracci di cielo sono intuiti a pezzi
tra il fumo nero e gli aviogetti.
L’estinzione persiste solo quando c’è esistenza;
Il nulla produce il nulla,
e della vita rimane solo l’apparenza
I naviganti del cielo
Da qualche parte è scritto l’ultimo segreto.
I caratteri sono i numeri della matematica,
le leggi della fisica, o i versi di una poesia.
Ignoro se ciò sia plausibile:
la prima si è persa nei suoi specchi e la seconda gioca a dadi.
Spero solo sia l’ultima a tradurne il mondo.
Mi conforta sapere che il modo ci sarebbe:
Chiedete a chi ha il cuore spaccato di guardarla negli occhi
e vi dirà all’istante di ogni problema la soluzione,
lo spin delle particelle e tutte le sue probabilità.
Chiedete a questo navigante del cielo
di volare per noi oltre il tempo
chiedete il segreto del mondo all’angelo caduto
che come Cassandra non sarà mai creduto.
Le dodici mura
Sono dodici le mura che proteggono la città.
L’architetto che le ha costruite ha giurato che saranno eterne.
La prima può reggere l’urto dei titani
La seconda può fermare un uragano
La terza il tremendo soffio dei monsoni
La quarta tutta la sabbia del deserto
La quinta il mare in tempesta
La sesta un fiume in piena che ha rotto gli argini
La settima l’ira degli Dei
L’ottava una epidemia
La nona un terremoto che semina terrore
La decima un esercito di centomila uomini
L’undicesima la furia degli elefanti
La dodicesima però, seppure costruita con tutte le intenzioni,
cade, non può reggere l’astuzia dell’uomo e delle sue invenzioni.
F giugno 2013 dedicata a Odisseo, il luminoso, figlio di Laerte e Anticlea
Le Parole
Il primo dono fu un libro, e cos’altro poteva
essere, un libro di parole antiche,
aspre e bizzarre che paiono un refuso,
ma sempre leggere come la lingua di chi le ha pensate, una lingua in disuso.
Vediamo un po’ cosa c’è dentro.
Lo apro appena e subito mi intriga la scuterzola, un insetto,
o la sbaiaffa e il pappaceci che s’industriano con la bocca;
il ciaccino affaccendato e lo scopanùvoli sopra il tetto
II nubìvago s’innamora di una tèmola flagrante
e con ella s’intrattiene in una diuturna redamazione.
Trovo poi la raviréssa che procede scutrettolante
per far colpo lisciardosa su un sugliardo gagarone.
Non mi spiace il pispolone stivaluto che va a cena con la salamistra
e s’ingozzano un raperonzolo su cui vola un muscoglione.
Tra i triviali c’è l’arfasatto, il salapuzio e il paltoniere,
c’è la donna quadrilarga che si coccola un coticone
con la spocchia esagerata di chi sposa un salumiere.
Non dimentico la suzzàcchera, la cacariuola e il guazzalletto
che con fare circospetto, si trascina una magalda,
sinforosa e temulenta, dalla strada al cataletto.
Incontro adesso lo sbaglione, il pittone e la leccarda,
la piaccicona burbanzosa che con dottanza,
si avvicina traccheggiante alla linguarda,
e da essa tutto impara con ottrentazione e malacreanza.
Mi fa ridere la cocottina ingualdrappata che adocchia un tempellone
E sgallinando pennacchiuta lo invita alla trescante.
Sono visti dal ciuffalmosto a cui non sfugge la seguizione
e nascondendosi inconocchiato aguzza l’occhio terebrante.
L’equivoco di Delfi
Arrivai alla fine del giorno a Delfi
quando il sole si corica e
anche ai corti allunga l’ombra .
La canicola, da poco passata,
si faceva ancora sentire,
l’aria era spessa e impastata di polvere,
un cane latrava per un tozzo di pane
e il mercante smontava il suo banco di frutta e di bacche.
Su quel selciato, giorni fa, Anassagora raccontava
di piccoli corpi sparsi per l’universo che poi, a suo dire,
formano l’uomo e tutte le sostanze. Così diceva, il pazzo.
Ho sentito dire che queste empietà gli costeranno care.
Proseguo il mio cammino nella città deserta,
le sue mura sono solide e ben costruite,
il tempio è vicino e finalmente saprò il mio destino.
La strada mi è stata indicata da un vecchio cieco che chiamano Tiresia,
che strana cosa, un cieco con gli occhi infossati, grigi e senza pupilla,
mi insegna la strada meglio di chi vede.
Ora è buio, non si vede niente, solo qualche torcia di traverso.
Presto sarà l’alba e conoscerò il mio destino.
La luna, intanto, stampa le sue ombre sulle colonne del tempio,
ne riconosco una: ne sono certo è la mia ombra
queste sono le mie braccia e questo il capo,
la riconosco, non c’è dubbio, ma l’altra …
l’altra è strana, è inconcepibile,
la testa è quella di una donna, ma il corpo è di un leone
e le braccia sembrano di un rapace.
Maledetto Tiresia ,non me l’ ha detto,
questa è Tebe e non Delfi e questa è la sfinge.
Il mio destino ora non conta più niente,
tra breve sarò morto se non rispondo.
Allora parlo per primo e grido il tuo nome
La sfinge resta perplessa, e poi si arrende.
A Stephanie nel giorno di natale del 2015
I Filosofi
I filosofi sono sempre alla ricerca delle risposte
e quando non ce l’hanno, barano.
Poiché le domande che non hanno risposte sono tante,
finiscono per diventare dei bari di professione.
Il poeta, invece, non cerca risposte, ma domande.
Come farebbe altrimenti la poesia a guadagnarsi il pane
senza togliere al mondo le mutande.
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Il primato della poesia sulla filosofia
Dove vanno a morire gli uccelli
Nessuno sa dove vanno a morire gli uccelli.
Forse nell’acqua del mare o tra le cime dei monti,
tra gli alberi di una selva lontana e nascosta
o in un pianeta lontano che ancora non conosciamo.
Nessuno lo sa. Rare volte la morte li coglie in città.
Con un piede scansiamo l’intruglio dagl’occhi di vetro,
così diverso dalla creatura alata che vola fra le nuvole
in un cielo mattutino di novembre.
Poteva essere una rondine ferita dalla ruggine di una grondaia
Oppure un usignolo che ha cantato per l’ultima volta la sua solitudine
o fors’ancora un passero che è rimasto indietro nella sua folle corsa verso l’infinito.
Nessuno sa dove vanno a morire gli uccelli.
Forse la morte li coglie in silenzio, all’improvviso
E li trascina con sé, serena, in un luogo agli uomini proibito.
Ripenso la mia città di stracci nel silenzio della notte.
Questi versi stentati faticano a descriverne l’odore,
acre, di rifiuti mal riposti e di insetti indaffarati
a raccattare qualche avanzo sui ferri delle fogne intasate.
Questa città di scatole vuote, calpestata dall’indecenza,
umiliata dall’indifferenza, non vede un futuro.
Le giovani generazioni sono peggio di quelle passate,
si muovono sfrontate come blatte che invadono i marciapiedi.
Città di topi e di fetore, cresciuta nell’indifferenza del potere,
sotto la melma si trastulla e parla senza vocali.
Città obesa e malandata, dove tutto nasce per caso
e poi resta, appeso, come il pipistrello nel sonno del mattino.
Città di crepe e di rifiuti incendiati, di tetti marci e di vicoli stretti,
Città di ricchi senza pudore, corti di senno e di intelligenza,
città di abbagli e false speranze, dove tutto muore in fretta
e in fretta si dimentica, anche la vergogna .
Città senza memoria, che vuole ricordare un passato incerto.
Città senza mura, città che non ha saputo rialzarsi.
Città per sbaglio.
F 9 .8 .2013
Montaperti
La strada per Firenze è tinta di rosso.
Il sangue di Montaperti sgorga a fiotti sporcandone i sassi.
Ah città sfortunata! Offesa dal delirio dei potenti.
Quanto breve è durato il sogno della tua onnipotenza.
La Toscana intera inneggia a Siena
E La potente Pisa vorrebbe che non fossi mai nata
Tu, in ginocchio, assaggi l’acre sapore della polvere.
Firenze la guelfa, salvata dalla pietà di Farinata.
Marte il tuo antico padrone ha avuto la sua vendetta
Nuotano nell’Arno ferito i topi fin su la sinistra spalletta
A fior d’acqua cadaveri mutili si arenano nella belletta
L’estate cala i suoi dardi all’ombra di Settembre
E il fetore della morte accompagna i tuoi figli fin dentro le tue piazze
Cadaveri straziati tingono di rosso i muri di San Giovanni
Sonetto per il tempo che si difende
Breve il tempo che si accartoccia
dietro l'angolo della notte,
si agguatta di nascosto e fugge
i rumori del giorno che sopravviene.
Breve il tempo del buio,
e così quello che ti riposa,
breve quello che non ti addolora,
e breve quello che ti riempie il cuore col miele della speranza.
Breve il tempo della solitudine che partorisce
gli attimi che non sei disposto a condividere col mondo intero.
Troppo pochi per disperderli
nel buco nero dell'indifferenza,
nell'insensata fretta della vita.
​
Sopra di noi vola un’aquila.
Non so se è vera o l’ho sognata,
forse significa qualcosa,
un presagio, un indizio che porta a te
o è solo un pezzo dell’azzurro del cielo che s’interrompe
una nuvola grigia che chiama il maltempo
un presagio funesto della tua inesistenza.
​
Tanti sono i modi per poter morire
come tanti sono i volti della morte.
Il tempo non c’entra, si muore scoppiando di salute.
Si muore giovani o vecchi ma sempre soli.
Ed è come se l’amore si fosse dimenticato di noi.
Eppure, è il solo che ci salva la vita, quando c’è.
Quando manca, bisogna inventare altri modi
per supplire l’antidoto che scorna la paura della morte,
ma non ci sono, e si torna a morire ancora una volta,
di ragione, di scienza o di religione.
La paura dell’amore è più forte della sua necessità,
Si preferisce morire in pace che vivere nella tempesta.
Di rado l’impenitente abiura e chiede:
insegnami a morire senza paura.
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Questa poesia è nata da una frase che la giustifica tutta: l’amore è forse l’unica cosa che può insegnare a qualcuno che si può morire senza avere paura.
Un mosaico
Da un mese non ti vedo.
Il tempo sbianca le immagini e i suoi colori.
Le labbra, gli occhi, i capelli, sono tessere di un mosaico interrotto.
La memoria si sforza di ricomporle , fa del suo meglio.
Nella cattedrale di Otranto c’è un famoso mosaico sul pavimento,
narra di atroci avvenimenti, di turchi e di turpitudini,
Il mio mosaico è più modesto, non ha martiri da ricordare,
né gesta atroci da dimenticare. Le sue tessere sono qualche gesso,
versi di poesie spaiate, il ricordo di un amico che non c’è più.
Il mio mosaico è la memoria mia labile che resiste al tempo.
E conserva un volto. Il tuo volto.
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Madeleine
Su un muro del chiostro di Santa Croce
là, dove le segrete ossa riposano ancor prima di lui
che le ha rese eterne, è segnato il tuo nome: Madeleine.
Nove lettere scavate nella calce da chissà quanto tempo.
Scritte forse da un ragazzo l’ultimo giorno che ti ha veduta
O da un vecchio fuori di senno entrato lì a fumare
a rivedere il nome della donna che l’ha scaraventato in cielo
Madeleine. Era lui mezzo secolo fa il ragazzo innamorato
con le unghie consumate a scrivere quel nome
nove lettere multiplo della trinità.
Madeleine. Io non so se tu ci sei ancora in qualche sperduto luogo
Ma ovunque tu sia, compra una rosa per quel vecchio matto
e gettala in quel chiostro ai piedi di quella scritta.
Così saprà che non ti ha mai perduta.
storia di un'amicizia tra tre anime affini separate da settant'anni: Marco, un ragazzo di diciotto anni che vive la propria vita lacerata dai sensi di colpa per aver involontariamente causato la morte di suo fratello gemello all'età di tre anni. Stephanie, la sua compagna di banco e di vita. Ugo, un signore conosciuto per caso da Marco al cimitero, quasi novant'anni ma ancora lucidissimo e in ottima salute. Sullo sfondo, pezzi della storia d'Italia raccontati dalla formidabile memoria di Ugo. Da Questa memoria si dipanano ricordi che legano Ugo ad un amore mai iniziato e che la vita si incaricherà di rendere ancora possibile.